
Il tartufo indietro nella storia
- Diego Parmegiani
- 7 apr 2020
- Tempo di lettura: 2 min
Il fascino del tartufo è nel suo mistero. È figlio della terra e del buio. Lontano da tutto
ciò che vive e si ciba di sole. Non ha rami, né foglie, né tronco. Cresce nell’oscurità del
terreno, aggrappato alla vita grazie alle radici degli alberi. Aspetta l’acqua. Poi cede alle
piante elementi minerali per avere in cambio glucidi. Per ubbidire alla prima regola del
mondo dei viventi, quella di conservare e propagare la specie, ha solo un’arma: il suo
profumo. Un richiamo che seduce. Irresistibile. Qualcosa di ancestrale che si propaga
nel terreno, affiora in superficie e imprigiona l’olfatto. Poi la gioia arriva in tavola. La
lunga e affascinante storia del tartufo è quindi mescolata, in modo inevitabile, ad un altro
profumo: quello del mito.
L’Umbria è terra di tartufi da trenta secoli. Gli uomini che sopravvissero al diluvio, che
i Greci chiamavano “ombrikoi”, già conoscevano il meraviglioso frutto della terra. Gli
antichi Umbri chiamavano “tartùfro” quel “sasso profumato”. E ne introdussero l’uso e la
conoscenza in tutta la penisola.
È incredibile pensare che i Romani, che ne erano ghiottissimi, ricercassero soprattutto
quello meno pregiato, che arrivava dalla lontana Libia e come ricordava Plinio “cresce
isolato e circondato di sola terra, la secca, sabbiosa e fruttifera terra della lodatissima
Africa” e non si accorgessero che nei boschi dell’Umbria, cantata dal sabino Varrone, a
due passi dalla Città Eterna, c’erano giacimenti inesplorati di tartufi straordinari.
Giovenale li amava a tal punto da affermare che “era preferibile che mancasse il grano
piuttosto che i tartufi”. Fu uno dei pochi a gustare il tubero nero delle zone centrali dell’I-
talia attuale, che era invece sconosciuto per quasi tutti i suoi concittadini.
Scrofe al guinzaglio con un anello incastrato sul grifo
Forse perché all’epoca i porci non venivano fatti pascolare. E il metodo più antico per
la cava dei tartufi, per secoli, è stato proprio quello di andarli a cercare affidandosi ai
maiali. Anzi, alle scrofe. Condotte al guinzaglio dai contadini e capaci di trovare un tartufo
anche tre metri sottoterra: attratte dalla somiglianza tra il profumo del tubero e l’odore
degli ormoni sessuali secreti
dal verro, il maiale maschio,
sarchiavano voraci il terreno e
scovavano tartufi a ripetizione.
Un fiuto eccezionale. Anche
se c’era qualche controindi-
cazione. Come quella, ben co-
nosciuta, di evitare che dopo
aver trovato il tartufo lo divo-
rassero all’istante. Così i con-
tadini umbri presero l’abitudi-
ne, conservata fino al secolo
scorso, di incastrare un anello
di ferro all’estremità anteriore
del grifo, il muso ingombrante
dell’animale.
L’altro problema, una volta trovata la scrofa giusta da addestrare, era quello dell’aumento progressivo del peso dei maiali: condurre le grufolanti femmine sui luoghi della ricerca era una attività redditizia ma indubbiamente faticosa.
Nella quale gli umbri sono comunque stati, per centinaia di anni, maestri indiscussi.





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